lunedì 22 giugno 2015

#LcomeAlice oltre il Fringe: finali alternativi e teatro d'attrazione

Di ritorno dalla nostra prima esperienza al Roma Fringe Festival, è il momento di fare un punto della situazione artistica, produttiva e "ambientale" entro cui il progetto L come Alice continuerà a destreggiarsi. In tre giorni di palcoscenico abbiamo intercettato oltre 100 spettatori, collezionato 5 nuove recensioni + un'intervista inedita, ampliato la ciurma artistica a 7 persone (di cui solo una sulla scena!) e ricevuto un'interessante proposta dall'estero (dove/come/quando lo scoprirete molto presto...). Nonostante lo stop al primo turno, L come Alice ha prodotto discorso e ha prodotto genuini hangover interpretativi dopo gli istituzionali  50 minuti di messa in scena.

Stampando un volantino a fisarmonica, allegoria visiva e materiale della plurisemanticità del non-sense carrolliano, abbiamo invitato i nostri spettatori a continuare la storia di L scrivendo un finale alternativo a partire da un estratto di Attraverso lo Specchio:

"di tutte le persone inconcludenti che ho conosciuto". Non finì mai la frase, perché in quel preciso momento un formidabile tonfo squassò la foresta da un capo all'altro e...

L'operazione, per quel che ne sappiamo, è stata accolta solo da 3 temerari spettatori i quali, dopo averlo vergato di proprio pugno, ci hanno consegnato il loro finale alternativo (di cui pubblichiamo un esempio).


L'idea era quella di far sbocciare spontaneamente delle storie alternative a partire dalle suggestioni che il pubblico aveva ricevuto dall'esperienza della messa in scena. Invitando spettatori e spettatrici a condividere il proprio testo sul web attraverso l'hashtag #LcomAlice, l'intento era quello di lasciar fiorire autonomamente anche la "diffusione" dei contenuti, senza organizzarli dall'alto. In questo senso, non si tratta di fare interazione ma di innescare partecipazione. La componente transmediale del progetto (ovvero l'universo narrativo di #LcomeAlice che attraversa diverse piattaforme media) diventa efficace nella misura in cui non è controllata da noi (come nel caso della regia scenica) bensì trova il suo modo di agglomerarsi, mutarsi e perché no, disperdersi (qualcun'altro magari ha prodotto il suo finale e l'ha chiuso in un cassetto della scrivania). Quell'hashtag di fronte al titolo (#LcomeAlice) non è figlio della moda twittereccia, ma un'ulteriore indizio per ribadire la natura incontrollata e in-posizionabile dello spettacolo e del progetto.

La ricerca di questo effetto, per noi fondamentale, si è rivelata per alcuni aspetti controproducente. Confrontandoci con pubblico, giuria e afecionados di Alice, la critica più ricorrente riguardava una presunta mancanza da parte della messa in scena di far immergere lo spettatore all'interno dell'universo narrativo che, ad ogni modo, risultava essere discontinuo e frammentato. Su questo punto, vorremmo sciogliere un piccolo equivoco: che piaccia o meno, la ricerca di una dimensione spettatoriale e narrativa ambigua e, in alcuni casi anti-immersiva, rispecchia per noi una precisa intensione artistica. Si tratta del frutto di un ragionamento e un lavoro quadriennale e si collega ad una tradizione artistico-teorica abbastanza evidente e storicamente situata nel solco dell'avanguardia storica, del pensiero post-strutturalista e della controcultura.


In particolare, in alternanza e compenetrazione al concetto di immersione diegetica, noi pratichiamo un teatro di attrazione. L'idea di attrazione, sviluppata nell'ambito degli studi sulla spettatorialità cinematografica negli anni 80 (ma che è presente anche in Brecht e Artaud), si riferisce alla capacità del dispositivo artistico di suscitare meraviglia, stupore, shock e, in ultima analisi, "attenzione", senza il bisogno di essere sostenuta dal principio di causa-effetto e dalla mimesis aristotelica. Lo stereotipo dell'arrivo del treno proiettato sullo schermo che scatenava il panico nei primi spettatori di fine 800 è una bufala: nessuno credeva che si trattasse della realtà, bensì era soprattutto la meraviglia di vedere una fotografia in movimento che destava lo stupore e l'attenzione del pubblico.

L come Alice è in questo senso un continuo collaudo di momenti di attrazione che aspirano a trasformarsi in immersione...ma non ci riescono! Un'intuizione piuttosto calzante su questa metodologia proviene dal nostro (nuovo) scenografo quando una sera ha esclamato: "Sembra sempre che stia per succedere qualcosa, che stia per iniziare una storia...e invece no!". L'evocare questo stato di sospensione e di indecisione fenomenologica nello spettatore è uno degli obiettivi che ci siamo preposti, oltre a quello di ibridare la performance con generi e arti diverse per renderla un oggetto teatrale non identificato ("Non ho capito cos'era!" - ha chiosato un detrattore dello spettacolo - "un'installazione? una performance? un film?!"). Aldilà di quest'ansia tutta moderna di dover incasellare l'opera all'interno di precisi quadri epistemologici, è proprio nel far rivivere nello spettatore una condizione di precarietà cognitiva e comprensiva, che si manifesta la componente politica radicale di L come Alice.


L'attesa per la "svolta" narrativa affiancata da una continua ansia da notifica, le sorprese inaspettate, le attese inutili e le accelerazioni improvvise, la fastidiosa scoperta di essere usciti per una scampagnata teatrale e ritrovarsi invece all'interno di campo minato cognitivo. Il teatro non è rappresentazione, è una disposizione alla tensione; non è storia è trama, nel senso di tessitura di percezioni-in-azione; il teatro, o almeno quello di L come Alice, è un'ecologia.

        

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