martedì 3 febbraio 2015

«Italiano medio»: will the revolution be televised?

In Italia, si sa, abbiamo un grosso problema con la commedia. La "commedia all'italiana", così come gli spaghetti al pomodoro, è il brand salvagente a cui il feudalesimo dello spettacolo si riempie la bocca e (speranzoso) le tasche. Un fenomeno, quello della commedia all'italiana, che sostanzialmente nasce e si esaurisce nel cinema di Steno, Monicelli, Risi, Age & Scarpelli, Suso Cecchi D'Amico degli anni 50. In questo senso La Grande Guerra (Monicelli, 1959) fa da spartiacque: riunisce idealmente il personaggio di Alberto Sordi in Un eroe dei nostri tempi (1955) e quello di Vittorio Gassman de I Soliti Ignoti (1958), uno poliziotto, l'altro "lavoratore", e li catapulta nel bagno di sangue della prima guerra mondiale. Seguirà una stagione di rivoluzioni, dove i vari "poveri ma belli" fanno i conti con la fine del boom economico e vengono mano a mano annichiliti dalla cultura televisiva. Durante l'age d'or delle pagliacciate smanettone e scorreggione dei vari Lino Banfi e Alvaro Vitali, arriva Fantozzi di Paolo Villaggio (1975) che, fra i tanti, percula quel melieu cinefilo di sinistra che non sa più ridersi addosso e Un sacco bello di Carlo Verone (1980) che è l'ontogenesi cine-televisiva del coatto romano tardo-capitalista. Lo scivolone avviene negli anni 90 quando la satira di destra si lega a doppio filo col potere a tubo catodico: da un lato le pochade del Il Bagaglino, dall'altro quelle dei Cinepanettoni targati Vanzina. La risposta dei progressisti [sic.] avviene tramite commedie moral-melodrammatiche, che dal colpo di coda di Monicelli in Amici Miei (1975) vanno gradualmente impaludandosi con le saghe di Verdone, Pieraccioni, Aldo Giovanni e Giacomo, Benvenuti al... e l'infamoso, definitivo, Checco Zalone. Questa menata storica, solo per dire che Italiano medio parte già con le "mani nella merda".


Il fenomeno Maccio Capatonda (alias Marcello Macchia) è noto a quella fetta di pubblico internauta che ha riso dei suoi trailer sul web e su Mai dire lunedì (2005). La comicità di Maccio, attore-montatore-regista, colpisce la (s)grammatica del sistema audiovisuale italiano portandola all'eccesso. L'idea è quella di combinare il vuoto dei luoghi comuni ("ho già mangiato!"), la tracotanza fàtica della voice over ("un film di brunoliegibastonliegi") e l'amatorialità audiovisiva, per creare uno stile, e un personaggio, che è davvero dentro e contro l'Italia contemporanea. Certamente Macchia non nasce imparato: la Cinico-tv di Ciprì e Maresco e trasmissioni come Avanzi o l'Ottavo Nano hanno offerto una base di partenza decisiva, magari involontaria, affinché, con l'arrivo di YouTube (2005), si avesse la possibilità di studiare frame-by-frame le tecniche di tele-inganno che dal trailer alla reclàme, dalla fiction rai alla serie americana, dal carosello al telegiornale, rappresentano il palinsesto mentale ed esistenziale dell'italiano medio

Il titolo del film nasce infatti come spin-off dell'omonimo trailer andato in onda qualche anno fa (se non sbaglio in pieno governo Monti) diventando un tormentone giovanile e consacrando il personaggio di Maccio Capatonda e il suo compare Herbert Ballerina. La micro-storia, che scimmiottava una scena cult di Matrix, raccontava la vita di un italiano frustrato dalla crisi che sotto consiglio di un amico assume una pillola che ne riduce le capacità mentali, trasformandolo in un coatto-menefreghista, cioè in un italiano medio.


Trascinato dal motto #eamechemmenefregamme, la prima parte del film di Maccio Capatonda è sostanzialmente un trailer allargato. Ridiamo dei suoi lati da Dr. Jekyll e Mr.Hyde, attraverso una serie di gag auto-citazioniste che tutti si aspettano e qui vi ritrovano. Ma durante l'intervallo, ci assale un dubbio: e ora che succede? il film sarà tutto così? Che Macchia si sia inchinato al diktat cine-zuzzurellone come altri suoi colleghi del web è plausibile. In fondo anche Boris in questo senso ha fallito miseramente, rimanendo una cattedrale nel deserto e generando invece un movimento di "Pannofinicazione" di cui abbiamo piene le palle. Con sorpresa, e grazie all'aiuto dei quattro sceneggiatori che lo affiancano anche in Mario, Italiano medio compie invece un twist.

Gli indizi in realtà c'erano fin dall'inizio: il protagonista, Giulio Verme, nasce da una famiglia completamente assoggettata al televisore. Come risposta, Giulio sviluppa un'avversione patologica al sistema e, in solitaria, esce di casa per cambiare le cose. Vivere "fuori dal sistema" è l'ingiunzione patologica con cui si scontra Giulio e che, inevitabilmente, innesca quel movimento uguale e contrario che lo trasformerà in un tamarro-piglia-tutto il cui scopo è diventare il campione di Master Vip, ennesimo talent show che mette semplicemente in palio "la fama". Riecheggia nel film la retorica di "Tutti Famosi", il partito generalista raccontato nella terza stagione di Mario, mutuata da quella di Saranno Famosi (1998) di Mariafilippiana memoria. 

Come è facile aspettarsi, il film si conclude con una soluzione di mezzo e a mio avviso, è proprio quel personaggio di-mezzo che rappresenta il vero italiano medio. Driblando lo stereotipo consolatorio quanto classista secondo cui l'italiano medio sarebbe il menefreghista coatto (un upgrade scontata, se vogliamo, del Sordi anni 50), l'italiano medio è invece il figlio post-manipulite del governo di larghe intese. [segue piccolo spoil] Quando Giulio propone di finanziare i lavori per il bio parco attraverso un talent show per aspiranti "zappatori", si tuffa compiacente nell'ideologia del compromesso, delle larghe intese che assolvono tutto e tutti, del capitalismo ecosostenibile e spettacolare. Se la morale di fondo sembra essere che il giusto sta nel mezzo, quell'"almeno in Italia" - aggiunto da Giulio che poi sprofonda sul divano spalleggiato dalle sue due amanti - non è per nulla un epilogo consolatorio.[fine spoil]


L'italiano rimane "medio" perché non riesce a convogliare le spinte anti-capitaliste in un respiro di gruppo. Da un lato, i compagni "sovversivi" di Verme sono il movimento dei "Salmoni", un manipolo di complottisti con lo scopo patologico di andare "contro corrente", allegoria non troppo velata dei grillini allo stato brado. Dall'altro la strategia dello spettacolo, innervata a doppio filo nell'esistenza occidentale, che spettacolarizza ogni lotta, talentalizza ogni attivista. Se la rivoluzione, parafrasando Gill Scott-Heron, sarà televisualizzata, non sarà più rivoluzione. E' questo forse il messaggio amaro che ci lascia, consapevole o meno, il film di Maccio Capatonda.    
    

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