mercoledì 31 dicembre 2014

Have a new year #inCommunia: Bambaataa's Hip-Hop from 1981 to 2015

Ieri su wikipedia ho cambiato la storia di Afrika Bambaataa. Ho sostituito un "1" al posto dello zero di 1980, per indicare la data esatta in cui Bam suonò per la prima volta a Downtown Manhattan, inaugurando così quella spericolata pandemia culturale che va sotto il nome di Hip Hop. Nell'aprile di quell'anno presso il Mudd Club di TriBeCa, un locale adibito a galleria d'arte sotto la direzione di un giovane Keith Haring, Fab 5 Freddy e Futura 2000 radunarono i migliori graffiti artist e hip-hoppers del Bronx e li fecero incontrare col nocciolo duro della new wave newyorkerse. Sebbene fosse un'occasione imperdibile, a Bam rodeva ancora per la pubblicazione del suo Zulu Nation Throwdown, falsata dall'inserimento di un riff strumentale ad opera di Paul Winley, il suo produttore di Harlem. Bam e i Soul Sonic Force avevano puntato su un beat espressamente sintetico, pneumatico, e le chitarrine dell'Harlem Underground Band inserite da Winley non c'entravano proprio un cazzo. Fatto sta che Bam suonò lo stesso quel pezzo e la gente andò su di giri e Fab 5 Freddy, strizzando probabilmente l'occhio ad Haring, promosse altre serate del genere a Manhattan. Ringalluzzito dalla faccenda, Bambaataa si mise a lavorare ad un nuovo pezzo con la neonata Tommy Boy, che l'anno successivo avrebbe sancito il punto di non ritorno nella storia dell'Hip-Hop: Planet Rock.

Mi piace pensare che in questo 2014 che sciorina via, sia stato sancito anche da noi un piccolo turning point nella storia della doppia H. In sedici anni di attività, ho visto sfumare e impastarsi centinaia di volti e di mosse, colare o scrostarsi altrettante parole, stili, immagini, suoni, vibrazioni, soprattutto vibrazioni. Da un paio d'anni a questa parte, l'immersione in questo flusso di cose non mi basta più: è come essere incapsulati in un fiume di placenta lattiginosa, a cui non puoi che arrenderti e godere del suo tepore ombelicale, prima di essere espulso, un giorno o giù di lì, come scarto abietto. E' questo che non mi piace dell'Hip-Hop e della sua comunità: che in finale, ci si debba rassegnare a scoprirsi obsoleti o ridicoli e lasciare spazio al "nuovo". Allo stesso tempo, credo che abbarbicarsi sui valori totemici e adamantini degli originals o dei pionieri non porti a nulla di buono, ma faccia soltanto impantanare il flusso.

La comunità, ecco la strada, la comunità è tutto quello che ci resta. In essa convivono scuole, temporalità e territori diversissimi. L'Hip-Hop che vorrei vivere dovrà essere una lasagna di esperienze, non una minestra troppo calda o troppo fredda. Sotto al ponte della musica e poi a Communia, abbiamo iniziato a costruire (build) la scena che vogliamo. To build - nel linguaggio dei Five Percenters, un'organizzazione nata ad Harlem negli anni 60 a cui dobbiamo il termine "cypher" - non significa semplicemente costruire materialmente ma anche sintonizzarsi affettivamente e intellettualmente. How to build a scene (?) sarà dunque la domanda che dovrà tormentarci per tutto il prossimo anno, ma anche una strategia da perpertare.


E proprio con Strategia voglio iniziare questo nuovo anno #inCommunia. Si tratta di un evento promosso dal progetto Califostia Underground che prevede un battle collettivo di mixed style che sfrutta il simbolismo delle carte. In qualità di Assi, quattro ballerin* formeranno la propria squadra pescando dal "mazzo" dei partecipanti, per scontrarsi poi fino all'ultima carta in un torneo tutti contro tutti. Questo ritorno a forme di competizione sociali e comunitarie coincide con un ritorno negli spazi di lotta e autogestione che fra gli anni 80 e 90 sono stati il luogo di incubazione dell'Hip-Hop italiano.

Il 21 Settembre 1982 sul Village Voice di New York apparve il primo articolo dedicato alla doppia H, col titolo emblematico di "Afrika Bambaataa's Hip-Hop". Il giornalista Steven Hager, nel ripercorrere le tappe dell'incontro fra il ghetto e Downtown, fra cui l'episodio del Mudd Club, si domandava se il nascente movimento avrebbe avuto lo stesso potenziale sovversivo delle contro-culture degli anni 60. A distanza di oltre 40 anni, la mancata politicizzazione tout court dell'Hip-Hop è stata al tempo stesso la sua salvezza e la sua rovina. Oggi, con una molteplicità di storie alle spalle e un patrimonio culturale transgenerazionale e transterritoriale, è forse giunto il momento di rinverdire i rami conflittuali, resistenti e sovversivi insiti in questa cultura, affinché lo stile diventi davvero l'arte marziale con cui affrontiamo quella giungla d'asfalto che sovente chiamiamo vita.

Have a new year in communia, fellas.

Nessun commento:

Posta un commento

Ricordati di firmare il tuo post.
I commenti anonimi non saranno pubblicati.
Peace.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...