mercoledì 17 novembre 2010

L'essere inganna - per una rivalutazione delle apparenze nella danza Hip Hop

Fin da piccoli ce la menano con la storia che “essere” è più importante che “apparire”. La crescita della nostra vita interiore è più importante di quella esteriore, artificiale. Cresciamo a suon di Cenerentola, La Bella e la Bestia e Superman: tutti eroi la cui apparenza inganna. Tutto ciò che appare è dunque illusione. Per Platone la nostra realtà era la copia apparente dell’universale iperuranio; per Kant i nostri stessi sensi ci impedivano l’accesso alla “cosa in sè”; lo stesso concetto di avatar (la rappresentazione virtuale del nostro io nel cyberspazio) deriva dalla religione Indù, a cui Schopenhauer si ricollega parlando della realtà come “velo di Maya”, ciò che copre l’accesso alla conoscenza della verità. Cresciamo guardando film come Matrix, The Thruman Show e, ovviamente, Avatar: tutti a dirci quanto il nostro vero “io” sia offuscato dalla malvagia società delle apparenze.




Poi qualcosa cambia; le prime delusioni amorose (“ma come?! io sono molto meglio di quell’altro!”), le prime delusioni politiche (“sono tutti corrotti!”), le prime delusioni esistenziali (“che mondo di merda! quasi quasi me ne vado all’estero...”). L’apparenza vince sull’essenza, dove l’apparenza sono gli altri e l’essenza siamo per forza noi. E’ colpa dell’Altro se le cose vanno male, ma per fortuna possiamo rifugiarci nell’io, il nucelo sano del nostro vero essere, il candido soffice bambino che è in noi e che il mondo ancora non ha sporcato. “Essere e avere” è il titolo del celebre libro di Eric Fromm, molto in voga neglia anni ‘70. 
 
Oggi invece, dopo leggere Paulo Cohelo o dedicarsi al buddismo-zen, una delle modalità più diffuse per riscoprire il nostro io, è quella di danzare. Siamo soliti dire: “Ballando esprimo me stesso” - evocando l’immagine raccapricciante della nostra anima spappolata sulla punta di una specie di spremiagrumi trascendentale. Rinvigoriti da questo succo d’arancia metafisico possiamo tornare alla nostra squallida, artificiale apparenza. Perchè il mondo và così; perchè tanto, parafrasando Fight Club, possiamo sempre rifugiarci nella “caverna nascosta”.
 
Secondo il filosofo Slavoj Žižek, l’idea di un “io innocente” (come quella di un passato glorioso) è la costruzione immaginaria della nostra mente, per evitare di confrontarci col nulceo vuoto della nostra esistenza e giustificare la nostra condotta “artificiale”. Il fatto è che, nonostante tutti sappiamo che “essere” sia più importante che “apparire”, tuttavia continuiamo a comportarci come se non lo sapessimo. Come ci riusciamo? Semplicemente credendo alla purezza del nostro io interiore, che nonostante la nostra condotta impura nel mondo dell’apparenza, rimarrà un rifugio sicuro per la nostra anima. È la vecchia giustificazione militare: “Ho solo eseguito gli ordini”. Non vorremmo comportarci così, ma è l’Altro che ci obbliga a farlo.
 
Che centra tutto questo con la cultura Hip Hop e il breaking? La mia non è una critica materialista all’umanità, bensì un’umanizzazione della materia di cui è fatta la nostra apparenza. Se il nostro essere (il significato) si rivela una giustificazione immaginaria (un significante) allora sarà il caso di rivalutare l’importanza dell’apparenza. Lo spiega bene Quentin Tarantino, quando nel finale di Kill Bill Vol.2 ci racconta la sua interpretazione di Superman: Clark Kent è l’immagine che Superman ha dell’umanità. Il vero Clark Kent è Superman. Il suo costume è fatto con gli abiti in cui era stato ritrovato da neonato. 

 

Nel mondo Hip Hop siamo soliti impersonare un character, un personaggio diverso da quello che siamo nella vita di tutti i giorni. Come supereroi, indossiamo un costume abbinato e utilizziamo le nostre “super-skills” per vincere la battaglia, la sfida. L’Hip Hop è aggressivo, ma nell’accezione latina del termine “ad-gredior”, che significa “andare verso”. Andare verso gli altri, confrontarsi, esprimere attraverso l’esteriorità dei nostri movimenti. Capite allora quanto banale rischia di essere la frase: ”Io esprimo me stesso”. Se crediamo veramente di espirmere “noi stessi”, allora non ci sarebbe bisogno di farlo attraverso la metafora della disciplina artistica: è tutto già “espresso” vivendo la nostra vita. La scommessa, secondo me, è invece quella di abbracciare la così detta “apparenza” per trovare sulla sua superficie, una realtà del nostro essere che normalmente non riusciamo ad esprimere. Ecco perchè per essere “noi” a volte dobbiamo diventare “altro da noi” e anzi, come Superman, pensare che il supereroe sia il nostro io reale e che Clark Kent sia l’idea che diamo di noi al mondo.

The Rock Steady Crew nel videoclip "Uprock" (1984)
L’avatar, nell’etimologia induista, è l’incarnazione terrena di una divinità (il “significato” che s’incarna in un “significante”, il concetto che s’incarna nella parola, la sostanza che viene versata nel bicchiere) e lo stesso avviene nel caso del cyberspazio: l’uomo (il significato) che si virtualizza in un significante (l’accout di un gioco di ruolo o di un social network). Ebbene nel caso della danza hip hop, avviene esattamente il contrario: è la persona comune ad essere un significante vuoto in cerca di numerosi significati da contenere. Mi spiego: è il nostro vero io (quello di tutti i giorni) ad essere un recipiente vuoto mentre è il character che assumiamo ballando, a riempire di contenuto quel vuoto, il nostro vuoto. Con questo non voglio dire che la nostra vita quotidiana non vale niente e che solo l’arte può dargli significato. In questo caso, tornerei in qualche modo a rifugiarmi nell’idea immaginaria di un altro “vero io” nascosto nel regno dell’arte. 

La soluzione di Žižek (riprendendo Deleuze) è quella di trovare il senso sulla superficie delle apparenze, e non dietro di esse, perchè nell’apparenza stessa c’è già una parte del nostro io. Eseguire movimenti, gesti, atteggiamenti lontani da noi, significa indossare la stoffa dell’apparenza che è già parte di noi (come nel caso di superman-neonato) e trasformarla in un costume da supereroe, esprimendo non quello che c’è in “noi” ma quello che Lacan chiamava “quel che c’è in noi più di noi”. Molto più onesto.

 Non aggiungo altro a parte: Ci vediamo domenica al Floor Wars!

[v.1.1, del 05/05/2013]

1 commento:

  1. ottime riflessioni...come sempre....zuluuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu yo



    shai

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