domenica 10 marzo 2024

Sayounara Toriyama-san. Perché Dragon Ball mi ha insegnato a vivere l'hip-hop



L'immagine del primo numero di Dragon Ball che strinsi fra le mani ha lasciato un solco indelebile nella mia memoria. Era il 1996, avevo 12 anni e si trattava del mitico n. 39, l'albo dove Goku si trasformava per la prima volta nell'ossigenato Super Saiyan nel culmine della battaglia col mefistofelico Freezer. Ad allungarmi l'albo era stato Filippo, il proverbiale "amichetto delle medie". Uno che fino al giorno prima era tale e quale a te, ma che il giorno dopo entrava in classe trasformato in pre-adolescente, col ghigno beffardo di chi ormai la sapeva più lunga di te perché aveva scoperto questo fumetto che - «guarda che ganzo!». Ganzo e conturbante, non solo perché si leggeva da destra a sinistra, ma perché andava a ripescare un vecchio cartone - «te lo ricordi?» - dove un ragazzino dalla coda di scimmia  - «dove? quando?» - girava il mondo alla ricerca delle mitiche sfere del drago. Le sfere del drago, la coda e il bastone allungabile, le capsule, il maestro tartaruga e... il "pussy slap", quando il piccolo Goku tamburellava ingenuamente fra le gambe di quella ragazza e sfilandole le mutandine si accorgeva che... le manca qualcosa (!!!).   


Ci vollero giorni affinché questa scena primaria tornasse a galla, e alcune ricerche per scoprire che quel cartone animato giapponese l'avevo visto pochi anni prima su Junior Tv, il canale interregionale di tv ragazzi che trasmise la prima parte della serie animata di Dragon Ball senza censure e con la sigla originale nel lontano 1989 (e ancora nel 1991) su iniziativa di una intraprendente società di distribuzione italo-giapponese. Molto prima del flop delle videocassette di Dragon Ball GT (1996) e del  grande boom dell'edizione trasmessa in forma completa su Italia 1 dal 2001 in poi. 

Così, oltre ad acquistare regolarmente gli albi di Dragon Ball fino all'ultimo numero del 1997, recuperai a singhiozzi quelli precedenti, ricostruendo le vicende che portarono il Goku bambino a crescere, sposarsi, figliare e trasformarsi nel guerriero più invincibile dell'universo. La lettura di Dragon Ball coincise con l'iniziazione al mondo dell'hip-hop, nonché alla trasformazione da bambino con la zazzera ad adolescente coi capelli dritti a la Super Saiyan.

Il manga di Dragon Ball è stato senza dubbio il mio romanzo di formazione. Oltre alla spettacolarità dei disegni, diametralmente opposti a quelli di Erik Larsen per l'Uomo Ragno (che pur leggiucchiavo), il primo, forte scossone me lo diede l'idea che un "cartone" potesse crescere ed evolvere. Di li la curiosità, come in un affresco noir, di ricostruire le tappe di questo mutamento fisiologico e con lui le coordinate del vasto universo di antagonisti che non scomparivano una volta sconfitti, ma diventavano comprimari, alleati e insieme eterni rivali di Goku. Il caso più noto è quello di Vegeta, che senza riuscire mai a battere Goku in uno scontro diretto, riesce sempre a livellarsi al suo antagonista e trainare il resto della banda a superare costantemente i propri limiti. Un vero e proprio stile di vita che si cementifica quando nella saga di Cell Goku e suo figlio Gohan compiono il primo ritiro di allenamento nella famigerata stanza dello spirito e del tempo, un microuniverso a 10G, dove un anno di permanenza al suo interno corrisponde a un'ora sulla Terra. Un'altra tavola di Toryiama che resta indelebile nella mia memoria è quella di padre e figlio che escono dalla stanza in versione Super Saiyan apparentemente calmi e rilassati, ma in realtà irrimediabilmente evoluti, tanto che a salvare la Terra sarà l'ormai adolescente Gohan. Ma quando Goku sembra dover passare il testimone alla nuova generazione, ecco che con un repentino salto temporale Toryiama ci mostra Gohan più interessato agli studi che alle arti marziali, mentre il padre e Vegeta, in piena epoca di pace, continuano ad allenarsi con la cazzimma di due teenager del South Bronx. A loro corredo Toryiama non trascura mai del tutto il nutrito sottobosco di guerrieri decaduti che continuano a esercitarsi, lottare e sacrificarsi (anche letteralmente) per salvare la Terra dalla nuova minaccia di Majin Bu. E quando anche Goku ci rimette le penne, Toryiama lo fa allenare (e tornare) persino dall'aldilà, delineando una grande epopea dove lo scopo dell'esistenza (anche quella ultraterrena) consiste nel mettersi in discussione, lottare dentro/contro i propri limiti, travalicare mondi e orizzonti, anziché accontentarsi di accumulare trofei e abbandonarsi ai nostalgismi.   


È indubbio che io abbia riportato gli insegnamenti della saga di Toryiama nella mia vita da b-boy, avviata nel 1998. Il gruppo di "acerrimi amici" di Dragon Ball fu un modello fondamentale per immaginarmi il significato di "crew", giocato proprio sull'equilibrio fra rivalità e fratellanza, stile personale e valori comuni. La cultura dell'automiglioramento di Goku (contrapposta all'ossessione prestazionale di Vegeta) ha guidato come una stella polare questi 25 anni di allenamenti che, non è un caso, si svolgono quasi sempre in luoghi liminali richiamanti la dimensione della "stanza dello spirito e del tempo". Sottovia isolati, sale di palestra insonorizzate e garage disponibili rigorosamente di notte e situati in aree industriali o di periferia. Sebbene anch'io, nei tempi d'oro, abbia avuto la soddisfazione di vincere i miei tornei Tenkaichi, scavallati i 35 lo scopo dell'allenamento non è stato più quello di vincere la gara ma di essere pronto alla sfida: prima contro sé stessi, poi contro il migliore degli avversari possibili. Con l'arrivo dell'adultità e le responsabilità che ne derivano, massimizzare il poco tempo a disposizione per mantenere o evolvere le tecniche ideate e acquisite negli anni passati è un'attività che cerco di compiere almeno settimanalmente, come a voler riunire le sette sfere del drago, realizzare un desiderio e ricominciare tutto daccapo. 

Mentre all'inizio della mia carriera l'identificazione andava con Goku, negli anni ho rivalutato i ruoli di personaggi come Piccolo e Tenshinan (forse perché nel frattempo condividevo con loro anche il taglio di capelli!). Entrambi, all'inizio nettamente più forti di Goku, non riescono più ad avvicinarsi al livello del rivale ma continuano a migliorarsi e soprattutto ad essere presenti nel momento del bisogno, ispirando o guidando il comportamento delle nuove generazioni. Come Piccolo, che diventa il mentore di Gohan, o Tenshinhan, sempre con un occhio (dei tre) rivolto al benessere dell'amico Jiaozi. È esattamente così che vedo il mio ruolo di b-boy alla soglia dei 40 anni. 

Allo stesso tempo, quando in gioventù mi esercitavo anche 4-6 ore in un giorno, la massima di Goku - «l'allenamento non deve diventare una tortura» - mi ha permesso di amministrare le forze e prevenire infortuni gravi o sintomatologie croniche che invece hanno spinto molti miei coetanei a smollare o ridimensionare drasticamente la loro attività già prima dei fatidici 30. Connesso all'esercizio della danza, Dragon Ball ha avuto un ruolo decisivo anche nel mio rapporto con lo specchio. Sull'onda lunga dei corpi ipertrofici e inarrivabili dei vari Shwarzy e Stallone, anche Vegeta e suo figlio Trunks (guerriero tornato dal futuro per salvare il mondo da un'apocalisse androide... vi sovvien qualcosa?) cade nella trappola della massificazione muscolare, mentre Goku & son capiscono che «fortificare inutilmente il corpo» a discapito della velocità è un vicolo cieco nel cammino verso l'automiglioramento. Un precetto già presente nella filosofia hip-hop ispirata dai vari Bruce Lee e Mohammed Ali, che Toryiama rinverdisce, disegnando eroi certamente dal fisico atletico e definito, ma che preferiscono allenarsi all'aria aperta, zavorrando il proprio corpo piuttosto che usare attrezzi da palestra, parodiandone il machismo implicito di certi modelli di body building (è Majin-bu, un super-nemico color rosa dal fisico cartoonesco e curvy, a imprimere forse la più sonora batosta al macho-man Vegeta!).           

Nella mia attività di insegnante di danza e arteducatore ho avuto il grande privilegio di rielaborare gli insegnamenti di Dragon Ball con i miei allievi. Cercando di abbinare quell'ingenua, spontanea, simpatica gentilezza propria di Goku con la determinazione marziale e ascetica di Piccolo o Vegeta, ho cercato di introdurre i neofiti al breaking attraverso il principio pedagogico e politico che ci si possa rimboccare le maniche anche senza perseguire il mito del Cristo morto sulla croce o dell'American self made man. Pericolose tossine presenti sia nella cultura italiana sia in quella hip-hop, che un mondo iper-tecnologizzato ma non totalmente votato al capitalismo come quello di Dragon Ball può riuscire a mio parere ancora a debellare.     

Con la fine dell'edizione italiana del manga nell'ottobre 1997, quando Goku è ormai un nonno con l'aureola, nel 2001 la serie animata di Dragon Ball fa il vero boom su Italia 1, diventando un fenomeno di massa nazionale che plasma per due decenni l'immaginario di milioni di giovani e, a seguire, l'approccio educativo di genitori, insegnanti e artisti cresciuti in quello stesso mondo. È grazie a questo gancio generazionale che sono riuscito a connettere la mia visione dell'universo Toryiama con quella degli allievi nati negli anni 2000. Autogestione, motivazione, allegria, fratellanza, rispetto e sfida fra pari, sono tutti concetti che, raccontando la favola di Goku e soci in versione doppia h, risultano complementari alla narrazione fondativa dell'hip-hop (quella dei ragazzini che esorcizzano la violenza ballando fra le strade del Bronx), con l'aggiunta che entrambi - allievo e insegnante - hanno fatto esperienza diretta del mondo finzionale, ma non per questo meno significante, di Dragon Ball. Un mondo che poi ha continuato a espandersi e che dal 2015 aveva ripreso le avventure di "nonno" Goku con una nuova edizione scritta da Toryiama e disegnata dal suo erede mangaka Toyotaro. E che ovviamente ho iniziato a leggere con la stessa curiosità dei tempi dell'amichetto delle medie.

Quindi Dragon Ball è il migliore dei mondi possibili? Certo che no. La visione di Toryiama risente di un coté patriarcale molto forte e tipico della produzione culturale giapponese (e occidentale) dell'epoca, dove l'arco narrativo assegnato alle donne è quello di passare da "femmine folli" a madri ossessive e/o mogli coi pantaloni, come nel caso di Bulma, Kiki e C-17. Se il "maestro" della tartaruga è un anziano eremita che offre i suoi servigi in cambio di sbirciatine e palpeggiamenti verso giovani ragazze non sempre consenzienti, Goku, pur creando la propria famiglia nucleare, non ne eredita il "vizietto", rimanendo un bambino curioso bloccato allo stadio del "pussy slap" e attraverso il quale Toryiama ripropone la contro-narrazione maschile del marito-succube-della-moglie-matriarca. La nuova saga di Dragon Ball Super, alla luce dei tempi, tenta ovviamente di scardinare questi maschilismi con nuovi personaggi non-binari (come Whis) e guerrieri donne, depotenziando i protagonisti (Goku e Vegeta tornano allievi per superare i propri limiti caratteriali) e restituendo il clima di giocosa avventura delle saghe di Goku bambino, dove vecchi amici e nemici tornano a calcare il palco del mitico torneo Tenkaichi in edizione "lotta fra multiversi" (sic.). Un cambio di rotta che non elegge certo Toryiama a nuovo araldo del transfemminismo, ma che lascia uno spiragli a Dragon Ball e i suoi eredi creativi di accogliere nel proprio universo pedagogico le complessità sprigionate dalla globalizzazione di anime e manga, dando la possibilità a vecchi e nuovi personaggi, così come a grandi e piccoli fan, di non smettere mai di imparare dal bambino che e dentro di loro.

Per lo spirito e il tempo:
grazie Toryiama-san!           

lunedì 27 aprile 2020

Allarghiamo il cerchio: come danzare fra le strade della Fase 2

Mentre l’emergenza Covid-19 ha scoperchiato un vaso di pandora fatto di precarietà, disuguaglianza e vuoto politico, molte/i street dancer come noi hanno continuato a ballare in tha house, condividendo mosse, musica e knowledge sull’unico spazio d’incontro possibile: il web. Spostavamo il divano per ballare, e ci risaltavamo sopra per visualizzare, condividere, commentare e - perché no! - svolgere qualche lezione on-line per arrangiarci in qualche modo di fronte a questa inaspettata fase storica. Bene, direi. Ma non benissimo. 
Ce lo dice la nostra memoria muscolare. Durante il sonno ci agitiamo, convinti di rivivere quelle spericolate notti di festa, quando si ballava pressati l’un con l’altro e una voce gridava «Allargate il cerchio!». Un anatema per molti breaker, a proprio agio negli spazi angusti, ma anche il segnale per lanciare il giubbino a terra, disinnescare i pudori, sudare e danzare fino allo sfinimento. Destati dal sonnambulismo, ora che le misure restrittive sembrano allentarsi, "allarghiamo il cerchio" potrebbe essere lo slogan per immaginare nuove forme di ballo, festa e sfida, all’interno di una scena che deve necessariamente riaprire le porte allo spazio pubblico, ma anche abbattere le sue muraglie immaginarie verso il pubblico. Che effetti ha avuto la quarantena sulla nostra voglia di fare cerchio? Cosa ci spaventa? Ballare in sala o per strada?
La strada.
Ve la ricordate, sì?

In strada scoprimmo un nuovo modo di ballare, incontrarsi e crescere. Qualcuno c’è arrivato dopo, altri non sono più riusciti a farne a meno. Parchi, gallerie, sottovia e lastricati in marmo, in centro come in periferia, ora più che mai c’è bisogno di tornare a trasformare quei luoghi in meraviglioso campo di gioco artistico e politico. In questo siamo brave e bravi: ce l’ha insegnato la prima generazione hip-hop del Bronx, ma anche le migliaia di drag-performer, street & house dancer sparse nei luoghi di conflitto in tutto il mondo. In Iran (dove è vietato alle donne ballare in pubblico) o a Gaza (sotto alle bombe israeliane), dove fare cerchio è un atto di insubordinazione alle logiche sessiste e guerrafondaie che imporrebbero a certe persone un isolamento senza fine. Altro che “yo yo”! In quei luoghi, scegliere di ballare per strada ha innescato un movimento di rinascita collettiva, oltre che di espressione individuale.

Ballando Tehran, documentario che racconta il fenomeno delle "danze virali" scatenate in Iran dopo l'arresto di una ragazza accusata di aver «ballato su Instagram». #dancingisnotacrime
Ora, in condizioni diverse ma comuni, anche per noi è giunto il momento di allargare gli orizzonti e ripensare al senso profondo delle nostre danze. Perché se i social sono stati fin’ora il mezzo, quale sarà il fine? Se non troveremo uno scopo urgente e alternativo al puro sfoggio di stile, le nostre performance potrebbero trasformarsi in un languido canto del cigno. Ben altra cosa rispetto alla dura realtà, che ti grida «Smetti di cazzeggiare e trovati un lavoro!», ma che in questa sede, vi invito a mettere per un momento fra parentesi.
A 36 anni suonati, come b-boy, intravedo nel dramma di questa crisi l’opportunità per riscoprire insieme un nuovo senso sociale, culturale e politico del “danzare in strada”. “Sociale”, perché ci allena a rimanere uniti attraverso le diversità (risolverla nel cerchio, piuttosto che sulla tastiera, è sempre stato meglio!); “culturale”, perché è un linguaggio che si alimenta dal basso ed è orizzontale («Each one, teach one!»); “politico”, perché ci insegna a reagire a tempi e spazi imposti dall'alto (quelli del ghetto prima, quelli dell'emergenza ora). Basta una cassa stereo e un paio di sneaker: tutta la danza, non solo quella urbana, nasce così: come arte povera e di comunità. Non a caso, da due decenni si parla dei bei tempi andati della cultura di strada che mai e poi mai ritorneranno. «Bene!», rispondo ora ai nostalgici, «se non ora, quando?».
«Fare o non fare: non c'è provare!»
Mc Yoda from Star Wars crew ;-)
Sì, ma come? Le feste che erano il cuore della nostra comunità, saranno off limits per mesi, se non anni. Si potrà ballare da soli, ma non in gruppo. Il pavimento, caro ai breaker, forse rimarrà veicolo di contagio e il semplice sfiorarsi potrebbe essere considerato fuorilegge! «Fare o non fare», insegna il maestro Yoda, «non c’è provare!». Ci aspetta un futuro di regolamenti fluidi perciò occorrerà muoversi con buon senso e intelligenza sul crinale delle norme, interpretandole “creativamente” (chi vi scrive riconosce la necessità di adottare misure preventive secondo le disposizioni) per tutelare la salute di tutte e tutti, ma anche per scongiurare autoritarismi e abusi di potere. Il cerchio allargato (un circolo di persone ben distanziate che si alternano al suo interno) potrebbe essere la migliore strategia per tenersi in forma, riattivare spazi comuni e riallacciare legami. Per capire se funzionerà, bisognerà iniziare a farlo. E farlo insieme non da soli. In strada, non a casa. Perché è lì, fra gli snodi dello spazio aperto, che nascono e si nutrono le comunità. Non ballare per i social, socializza per ballare!

Riscoprire e praticare le radici sociali della danza di strada all'interno delle normative, sarà la sfida dei prossimi mesi, ma non saremo i soli. Nel mondo, esperimenti di solidarietà e cittadinanza attiva che, pur nelle norme, provano a disinnescare i meccanismi discriminanti e incoerenti delle misure emergenziali. Una serie di provvedimenti che, ricordiamolo, deve “servirci” non “asservirci”.

Srotolare il linoleum: non è la soluzione al tutto, ma un'alternativa al niente.
E come ogni “serie” che ci cattura, è normale chiedersi come andrà a finire. Purtroppo gli episodi sono ancora lunghi, e il finale, come spesso accade, lo si scrive anche in base al gradimento del pubblico. Certo, se rimarremo sul divano, la «Netflix della cultura» farà un balzo in avanti verso l’aumento delle disuguaglianze, se invece riusciremo a far danzare le strade, forse sarà l’occasione per spazzarle definitivamente via. E chissà, da una nuova scena potrebbero spalancarsi nuovi scenari.


domenica 14 agosto 2016

The Get Down (primo episodio): una storia potenziata sulla nascita dell'hip-hop




Raccontare è inevitabile. Intorno ad un fuoco, di ritorno da un viaggio, di fronte agli occhi assonnati dei bambini: l'umanità ha usato le storie per dare senso alla realtà. Per questo ogni soggetto, individuale e collettivo, ha bisogno di costruire una narrazione efficace in grado di modellare l'ammasso di eventi accumulati nel corso del tempo. Oggi più che mai, la così detta cultura hip-hop vede il riemegere di antichi relitti della memoria, navi colme di racconti e storie mai narrate fino ad ora che chiedono di essere aperte, decifrate e classificate dalla generazione "di mezzo", quella che con l'hip-hop ci è cresciuta e ora ci lavora. Una generazione digitale libera dal culto dell'io-c'ero, ma allo stesso tempo cresciuta in una mitologia urbana popolata di b-boy leggendari, dischi introvabili e "lettere base" ricopiate dai ritagli di giornale.

Una generazione che insieme alla nuova si raccoglierà attorno a The Get Down, il Wild Style degli anni 2k10. Assemblata nelle fornaci di Netflix dall'australiano Baz Luhurmann (Romeo + Juliet, Moulin Rouge!, Il grande Gatsby) la serie è ambientata nel Bronx degli anni settanta e racconta le vicende che portarono alla nascita del fenomeno hip-hop. Uscita lo scorso 12 agosto dopo oltre 1 anno di promozione, The Get Down apre il sipario con un episodio adrenalinico che supra i 90 minuti. La storia è corale, sebbene il plot ruoti attorno all'amicizia fra due adolescenti, Ezekiel "Zeke" Figuero, un futuro mc portoricano, e Shaolin Fantastic, una cintura nera di "stile" metropolitano. Entrambi figli delle politiche di abbandono del Bronx, presentata come una vera "babilonia in fiamme" per citare Jeff Chang, l'amicizia fra Zeke e Shao dischiude un mondo più complesso fatto di lotte territoriali, giri d'affari e rimpasti politici. Un approccio sfaccettato, che ci trasporta continuamente dentro e fuori la scena underground, e che al momento non celebra nessuna "leggenda" ma semmai ne ipotizza e traccia di nuove. E' il caso di Shaolin Fantastic, un misterioso eroe che indossa puma rosso fuoco e marchia New York con la firma "Shao 007". Un supereroe immaginario che condensa e potenzia i racconti di leggende del writing come Taki 183, Super Kool, Phase 2 e Lee, e viene accompagnato con ironia e gusto vintage da una regia in stile blaxploitation e kung-fu movie. 

martedì 3 maggio 2016

Nasce Compagnia Garofoli/Nexus: start up artistica, educativa e teorica


Sono lieto e onorato di annunciare l'arrivo di un nuovo, ambizioso progetto, in "compagnia" di Laura Garofoli. Costituendoci come Associazione di promozione sociale e culturale, da oggi opereremo sotto il nome di Garofoli/Nexus, promuovendo arte, educazione e ricerca.

Questa start up - come si suole chiamarla oggi - promuove la convergenza fra teatro, street dance e media art, intrecciando il mio percorso di ballerino e teorico con quello teatrale ed educativo di Laura. Una trama, quella fra me e Laura, che parte già dal 2008 con la collaborazione nel cortometraggio Questione di attitudine e che riparte nel 2012 con la nostra prima auto-produzione L'Ombra, per andare ad ingrossarsi e confluire nella Compagnia Garofoli/Nexus.

Ci sono molte novità in arrivo, prima fra tutte il nuovo sito - www.garofolinexus.it - una piattaforma verde petrolio dove troverete tutti i nostri lavori e progetti. Fatevi un giro sul carosello e tenete le antenne rizzate.

Garofoli/Nexus:
hot inside, fresh outside.    

 

lunedì 14 marzo 2016

Facciamo un po' come cazzo ci pare: un racconto sull'irresistibile ascesa della Street Art


“Sull’acciaio, sul muro lascia tracce di colore come un codice,
il concetto che ti è estraneo rende il tutto più difficile,
il disegno è complicato come un puzzle da tremila pezzi
se vuoi capire tocca che li incastri tutti”.

Kaos, I fieri bboyz (1996)




Roma, quartiere San Lorenzo, 2016, ore 04:46.

“È un centro sociale, ognuno fa come je pare”. La risposta batte sulla nuca, come una secchiata di colla bollente che aderisce al derma e corrode. Il tizio sorride mentre la sua tag gocciola sulla porta a vetri dell’ “aula studio autogestita”, così recita lo striscione. Il tizio infila le mani in tasca, si tuffa nell’anonimato della bolgia, scompare. Resta il suo nome, latteo e indelebile: PRAY. “Chi cazzo è stato?”, sbiascica Gianni. Ma c’è un’altra sorpresa: una parete della sala grande completamente riempita di scritte. PRAY PRAY PRAY: ad libitum. “Come hanno fatto ad arrivare fin lassù?”, sbotta Roberta, “Devono essersi arrampicati uno sull’altro!”, interviene Corrado, “Non si può andare avanti così! Ora gli facciamo ripulire tutto!”, interrompe Clara sbattendo la mano sulla serranda, “Vabbè siamo un centro sociale mica in un penitenziario”, osserva Carlo stizzito, “Calma, Calma!”, ammonisce Francesca, “Mettiamo il punto all’ordine del giorno e ne discutiamo!”, “Ma quale punto?”, replica Riccardino, “Quello m’ha detto che siamo in un centro sociale e ognuno fa come je pare! Machecazzovordì?”. Luca scavalla le gambe e ammonisce, “A Riccà, è pure vero che sto posto è stato liberato, e libero ne rimane l’uso per tutti e tutte!”. “Ah sì?”, Riccardino si alza, slaccia la cintura e cala a terra i pantaloni, “cioè pe ditte: so pure libero de cacà pe’ terra?”.
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